A cosa servono i meme nel marketing?

I meme sono rielaborazioni creative di scene di film, serie o programmi TV; immagini con citazioni umoristiche o critiche pungenti; testi; gif e video … sono contenuti che fanno emergere una sensazione, un’emozione o ci strappano un sorriso. I meme sono ironici, sagaci, utilizzano spesso parole affilate come coltelli e fanno leva su una cultura condivisa all’interno della specifica community: per questo vogliamo condividerli immediatamente con i nostri amici stretti o di internet. Questi post multimediali sono definiti da Wikipedia come “un’idea, stile o azione che si propaga nella cultura pop, spesso per imitazione, diventando improvvisamente famosa”. Si tratta dunque di brevi testi o di contenuti iconografici che possiamo facilmente replicare e modificare in alcune parti così da adattarli alla nostra esperienza personale, per parlare di noi stessi.

La condivisione via web dei meme li rende a volte dei veri e propri proiettili digitali ad alto impatto, a causa della velocità con cui si propagano, ma anche per la forte carica esplosiva del contenuto in esso racchiuso. Infatti, non tutti i meme sono dei contenuti semplicemente umoristici: spesso celano al proprio interno riferimenti culturali molteplici e stratificati e richiedono livelli di lettura diversi oltre all’appartenenza ad uno specifico gruppo per comprenderne appieno il significato.

Un esempio di meme divenuto virale: il case study Matteo Renzi

Gli ambiti di applicazione dei meme

Nel suo libro “La scalata al mainstream” Alessandro De Luyk analizza in modo lucido e approfondito, supportato da una ricca letteratura scientifica, le finalità per cui è nato e viene utilizzato questo format; alcuni case study, relativi ad ambiti di applicazione diversi, supportano le sue tesi e stimolano una riflessione sull’eticità dell’uso che viene fatto dei meme.

Infatti questi strumenti sono talvolta impiegati come vere e proprie armi digitali per intraprendere battaglie narrative o diffondere fake news, per “sfidare gli avversari, target militari, istituzioni, politici, diplomatici, ecc … Si tratta di una vera e propria guerra memetica, dove attraverso dei contenuti che sembrano essere veritieri si crea una narrazione coerente al fine di propagare idee o esercitare forme di controllo sociale lungo le invisibili linee delle reti sociali digitali” scrive De Luyk.

Queste tecniche manipolatorie di propaganda digitale trovano la loro espressività ad esempio già nella campagna elettorale che ha visto contrapposti Donald Trump e Hillary Clinton, quando nerd anonimi hanno riempito la rete di meme pro-Trum e anti-Clinton, contribuendo a far pendere il piatto della bilancia dei voti a favore del primo.

Un altro eclatante esempio riportato da De Luyk è quello della propaganda effettuata dall’ISIS volta a creare un senso di identità tra i musulmani e riunirli in un popolo unico che condivide la stessa cultura e gli stessi valori e che deve essere difeso da dei nemici comuni.

L’uso dei meme in ambito politico e sociale viene effettuato quindi con una duplice finalità: da un lato si pone l’obiettivo di creare e condividere una cultura, diffondendone valori o ideali, dall’altra per destabilizzare il potere centrale attraverso una controinformazione realizzata per indebolire le massime autorità, minando e sgretolando quell’insieme valoriale e culturale su cui si fonda ogni società. Si comprende dunque la potenza e la pericolosità di questo strumento di comunicazione nel diffondere viralmente idee attraverso contenuti apparentemente innocui e spiritosi.

Una delle ragioni del successo di questa tipologia di contenuti è proprio il fatto che non è necessario essere in grado di leggerne tutti i significati, anche quelli più reconditi, per trovarli divertenti, coinvolgenti ed essere indotti a condividere il meme.

È proprio per la loro viralità che anche le imprese hanno iniziato ad adottare questo format. Nelle campagne di marketing i brand utilizzano i meme per il proprio corporate storytelling, per condividere i valori, generare awareness del marchio o del prodotto, o intrattenere i propri pubblici di riferimento.

Purtroppo però non sempre i risultati sono stati così positivi come quelli dei meme che avrebbero voluto imitare, dal momento che anche i meme hanno le proprie regole a cui le imprese devono sottostare.

Un esempio: la campagna Gucci #TFWgucci

De Luyk ci presenta, ad esempio, un case study, quello della campagna #TFWgucci per il lancio della linea di orologi Le Marché des Merveilles nel 2017, per giungere ad affermare come quelli della casa di moda in realtà siano fake-meme.

Ma perché secondo l’autore si tratta di un fake-meme e non di un meme vero e proprio?

#Viralità

La campagna ha avuto successo, come dimostrano le metriche misurate attraverso i tools di Social Media Marketing, che hanno rilevato i seguenti dati:

  • Reach totale: 120.089.317
  • Likes totali: 1.986.005
  • Commenti totali: 21.780
  • Tasso di coinvolgimento medio dei 30 meme: 0,5%
Un esempio: la campagna #TFWgucci (photo credits: anexinet.com)

È rimarchevole anche il desiderio che il Brand fa di tentare di avvalersi di un format come quello dei meme per condividere la propria cultura d’impresa tra il pubblico dei Millennials, più attenti al nuovo format (almeno per cinque anni fa) attraverso cui i 30 post della campagna di Gucci sono stati condivisi. L’obiettivo di generare awareness tra questo pubblico e colmare il divario tra brand di lusso e nuove generazioni è quindi stato raggiunto.

#Capacità di evolvere

La campagna però non è stata adottata e replicata dai follower di Gucci. La casa d’alta moda si è infatti rivolta a degli artisti del web per creare engagement, ha coniato un apposito hashtag per renderla identificabile, ma il risultato è una serie di bellissime immagini progettate e realizzate da esperti del settore, dirette a questo specifico target, ma poco efficaci nello stimolare i giovani Millennials a modificare i post per personalizzarli e condividerli con la propria cerchia di amici o in internet.

#Semplicità

Se spesso i meme utilizzano immagini semplici, spesso stilizzate o di bassa qualità, perché focalizzati sul messaggio, è chiaro come la campagna intrapresa da Gucci non sia propriamente identificabile con il concetto di meme, a causa dell’uso di immagini patinate, ben curate, private da qualsiasi minima imperfezione, pretenziose, coerenti con l’immagine di Brand ma ben diverse dai meme pop e virali, più attinenti alla quotidianità delle community.

Pochi, secondo De Luyk, sono i post di questa campagna ascrivibili nell’olimpo dei meme. Sono tali solo quelli in cui l’immagine viene decontestualizzata, dove l’attenzione è focalizzata sulla persona, così che il brand appare in secondo piano e il prodotto svanisce. Sono quelle in cui l’oggetto del racconto è la persona, l’immaginazione e la creatività.

I meme nel marketing: il caso Gucci su Instagram

#Testo e cultura

Il testo del meme deve utilizzare il gergo del pubblico a cui si rivolge e deve essere sintetico, puntuale. La conoscenza del proprio pubblico di riferimento, della cultura è strategica per realizzare meme efficaci, in grado di catturarne l’attenzione consentendo una decodifica agile del messaggio racchiuso in esso. Nel caso di Gucci, il contributo apportato dagli instragrammers scelti appositamente ha agevolato la Maison nel raggiungere il pubblico dei Millennials, ma ha suscitato delle critiche dal momento che il commento testuale a corredo dell’immagine decodificava il messaggio dell’immagine stessa, privando il lettore della possibilità di interpretarla liberamente.

#Pubblici di riferimento

Quelli di Gucci non sono veri e propri meme, perché servono solo a comunicare un prodotto di lusso presso il pubblico dei Millennials: sono privi di quell’ironia tagliente e divertente che caratterizza i meme e, soprattutto, non sono stati fatti propri dal pubblico, anzi! Le perplessità suscitate dai “meme” di Gucci sono generate anche dal goffo tentativo fatto dalla Maison di moda di rivolversi a delle persone che in realtà non fanno parte del loro pubblico di riferimento, in quanto sono pochi i Millennials, la generazione che più di tutte le altre utilizza questo format, che si possono permettere di acquistare orologi del valore di $800: sembrano più goffi tentativi di connettersi ai Millennials utilizzando meme-corporate in modo forzato e artificioso.

I meme, del resto, sono la dimostrazione in atto che la viralità ha regole proprie e che non sempre sono prevedibili, né replicabili.

Conclusioni

Cosa dovrebbero fare quindi i brand che hanno intenzione di avvalersi dei meme per raccontare se stessi o i loro prodotti presso i propri pubblici di riferimento?

Innanzitutto un’impresa che vuole avvalersi dei meme nella propria strategia di comunicazione dovrebbe :

  • rispettare le regole imposte da internet,
  • utilizzare lo stesso linguaggio e la cultura del pubblico a cui si rivolge,
  • strappare un sorriso a partire dai fatti di attualità,

ma soprattutto occorre “la morte dell’autore”, utilizzando le parole di De Luyk, “per rilanciare la creatività di un ecosistema che si rappresenta e si rende discorsivo al di là dei personalismi”.
Ciò significa che la comunicazione non deve restare focalizzata sul brand o sul prodotto, ma deve parlare delle esperienze di vita del proprio lettore, come ha fatto ad esempio Virgin, che ha sfruttato il celeberrimo meme “Success kid” per la propria pubblicità. Anche il brand Durex ha fa un buon utilizzo dei meme, come quando si è avvalso delle parole espresse da Matteo Renzi durante un’intervista rilasciata in un Inglese non propriamente corretto, divenuto poi virale: “First reaction shock”.

Il meme nel marketing: l’esempio della Durex

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