The Narrative Age – L’era narrativa: perché abbiamo bisogno dello storytelling

Un’attesa lunga due anni, ma poi ecco finalmente la nuova edizione del convegno Narrability dal titolo “The Narrative Age” organizzato dall’Osservatorio di Storytelling.
Se due anni fa l’obiettivo era diffondere un’informazione più corretta dello storytelling e dei suoi ambiti applicativi, attraverso l’adozione di un format che vedeva l’alternanza di interventi da parte di esperti a letture di racconti a tema, in grado di portarti dentro la storia stessa di Narrability. Quest’anno l’obiettivo è più ambizioso, perché più mirato alla consapevolezza, alla presa di coscienza che viviamo in un’epoca traboccante di format narrativi diversi e ancor più bisognosa di storie, che pertanto occorre imparare a conoscere e a decodificare correttamente.

Perché abbiamo bisogno di storie?
Come dice J. Gottschall l’uomo ha bisogno delle storie per vivere e per apprendere come vivere, in quanto è intriso di narrazione, è un “animale narrante”, per il suo modo di memorizzare gli eventi, di sognare, di prefigurarsi scenari futuri, di pensare, di evadere. In quest’epoca in particolare, abbiamo un ancor più disperato bisogno di storie: è innegabile che viviamo un costante senso di vertigini di cui anche i più esperti soffrono, un periodo caratterizzato da profondi cambiamenti sociali, culturali, di scoperte scientifiche e di rivoluzioni digitali, che ci hanno portato a sentirci spaesati, delusi, privi di speranza, a muoverci come masse di zombie, ma nel più completo isolazionismo personale.

Abbiamo perso di vista i punti cospicui che ci aiutavano a navigare solcando le onde della vita: la tecnologia ha portato con sé profondi cambiamenti culturali (come ha evidenziato da Maria Grazia Mattei); i social network non sono più solo dei mezzi per connettersi con amici nuovi o di vecchia data, ma sono diventati dei luoghi in cui rifugiarsi per evadere un po’. Sono dei territori in cui costruire la propria identità, per costruire un io a volte non corrispondente con quello reale.
Il lato oscuro della rete è costituito dalla presenza di algoritmi che mostrano solo ciò che è più vicino a noi e ai nostri interessi, precludendo di fatto la possibilità di aprirsi a prospettive diverse dalle nostre e restringendo la nostra libertà: i nostri dati, anche quelli personali sono individuabili in rete e siamo costantemente sottoposti al controllo da parte di società pubbliche e private che riescono a sapere tutto di noi. Le nuove generazioni, nascono già iperconnesse: agilissime e velocissime nel digitare su un touch-screen, il loro mondo è costituito dal web, senza più costrizioni spaziali, dove le opinioni degli amici contano più di quanto affermano i brand, le risposte vengono fornite in un battito di ciglia e la loro soglia di attenzione è inferiore a quella di un pesce rosso: come trattenere per un tempo prolungato il loro interesse?

Cambiano gli spazi del vivere, del lavoro e del modo di lavorare: le nostre case, le città, gli uffici sono sempre più arricchiti di tecnologia, che a volte non si riesce neppure a sfruttare appieno, perché non si sa come funziona: ne scaturisce un senso di paura e non sappiamo come comportarci, perché non abbiamo modelli o nuovi stili di vita a cui riferirci.
Siamo in balìa di un’overdose di dati, che ci provoca disorientamento, perché non riusciamo più a distinguere la verità da ciò che è finzione o che ci viene raccontato, non solo a parole, ma anche attraverso le immagini, e questo ci induce a cercare nuovi contesti in cui rifugiarci, nuove storie dove trovare asilo.

Abbiamo difficoltà a distinguere il reale dal verosimile: molte sono le verità o le finte verità che ci vengono raccontate, tra le quali non si riesce più a distinguere, soprattutto per i diversi format narrativi (presentati da Andrea Fontana) che ci disorientano, come:

  • l’info-fiction, ossia l’informazione scritta in modo narrativo, (magari da una fonte autorevole come in questo caso), presentata come un’informazione reale, ma che in realtà è solo finzionale;
  • la narrazione contro-fattuale: il racconto e la costruzione di fatti e teorie, in modo tale da renderli credibili, come è accaduto al documentario di Animal Planet sul ritrovamento del corpo di una sirena e basato sulle teorie di uno scienziato. La narrazione è stata avvalorata dal NOAA (il National Oceanic and Atmospheric Administration americano), che alla domanda sull’esistenza reale delle sirene ha risposto “No evidence of aquatic humanoids has ever been found; Non sono state trovate prove dell’esistenza di umanoidi acquatici”, lasciando così adito al dubbio;
  • l’Hyper-fiction: lo storytelling geopolitico che è più vero del vero, come l’ISIS, che presenta una versione del proprio racconto diversa a seconda del pubblico al quale si riferisce;
  • lo Storywording: la creazione di mondi narrativi, come la Misericordina, il santo rosario raccontato come un farmaco per la cura spirituale da uno storyteller autorevole e credibile, quale il Papa.

misericordina

In questo contesto i brand, la pubblicità autoreferenziale “old-style” dei prodotti, che si pongono al centro della propria comunicazione come eroi invincibili, non sono più credibili: i nuovi punti di riferimento sono gli amici e l’esperienza che hanno fatto del prodotto o della marca, oppure quelle pubblicità che comunicano attraverso i racconti, che umilmente si pongono in ascolto dei propri clienti, cercano di capirli e creano delle pubblicità, indiscutibilmente finalizzate alla vendita del prodotto, ma che hanno come obiettivo quello di parlare di loro, dei loro problemi e di come li possono aiutare a risolvere queste difficoltà: sono narrazioni che risuonano con la storia di vita dell’audience e inducono all’azione, come la comunicazione di Dove o di Always, un produttore di assorbenti, che si rivolge alle ragazze che sono appena diventate giovani donne, quella generazione tra i Millenials e la generazione X. Come riferisce Paolo Iabichino, Always ha rilevato una tensione culturale, l’ha intercettata e quindi raccontata: queste giovani donne, native digitali, non si identificano negli emoji dei social network ancora arroccati su stereotipi di genere, per cui le attività sportive erano raffigurate attraverso un personaggio maschile, lasciando la danza, il parrucchiere o espressioni più umorali alle donne. Quali conseguenze ha (direttamente o indirettamente) apportato questa pubblicità? Una più vasta gamma di emoji, dal maschile al femminile, passando per diverse sfumature del colore della pelle.

Sembra dunque che inizino a emergere dei brand, ma anche degli intellettuali in grado di “unire i puntini”, di studiare il proprio pubblico, non solo sulla base di variabili socio-strutturali (ossia su metriche prettamente quantitative, come il genere o l’età), ma per conoscerne la storia più profonda. Qui per “intellettuale” (secondo la definizione data da Federico Sicurella) si intende chiunque sia in grado di diventare portavoce di uno sciame di persone da cui si eleva solo un brusio confuso; intellettuale è colui che è posto in una posizione border-line, distaccata, ma proprio grazie a questo riesce ad avere una visione più ampia e a divenire un narratore autorevole, uno storyteller in grado di guidare queste persone, anche se per un brevissimo periodo, anche se solo con un post.

Ne deriva una grande responsabilità da parte dell’intellettuale-narratore: se basta una singola storia per indurre all’azione, il narratore diviene responsabile del nuovo senso costruito, del significato diffuso attraverso l’opera narrativa, di come ha collegato i diversi puntini e di come ha fornito la propria chiave di lettura della realtà, di come ha interpretando la complessità e di come vi ha messo ordine, perché lo storytelling, oggi più che mai, serve a governare le dinamiche di costruzione delle identità, a spostare le opinioni degli interlocutori in modo strategico, a potenziare e gestire dialoghi sociali e a costruire il consenso. Proprio per questo occorre esserne consapevoli e consci del fatto che “ogni storia contiene in sé un destino, ma ne nega altri” (riferisce Alessandra Cosso): se si decide di rifugiarsi in una storia, in un immaginario, si preclude la possibilità di immergersi in altre storie, in altri destini, di seguire altri ideali e valori.

Occorre quindi acquisire la consapevolezza dello sguardo narrativo.

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Simona

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